“Non volevo morire così”: una Spoon River tra Santo Stefano e Ventotene

Nel nuovo libro di Pier Vittorio Buffa i protagonisti hanno conosciuto la segregazione e le violenze del fascismo nelle due piccole isole del Tirreno. A Ventotene hanno lottato contro il regime, per regalarci un’Italia libera e democratica. Pubblichiamo un estratto del volume in uscita il 6 aprile e la prefazione di Emma Bonino

Non volevo morire così
, di Pier Vittorio Buffa (Editore Nutrimenti) , in libreria dal 6 aprile), è, come si legge nella quarta di copertina, una “Spoon River di Santo Stefano e Ventotene, le due piccole isole del Tirreno culle dell’idea d’Europa e della Costituzione italiana”. Le guide scelte da Buffa sono gli uomini che sulle due isole sono stati segregati. “A Santo Stefano gli ergastolani morti nel carcere e in parte sepolti sull’isola: storie sconosciute di chi ha scontato anni e anni di reclusione e vissuto rivolte, fughe, violenze, ingiustizie. A Ventotene i confinati che hanno lottato contro il fascismo, per la libertà, per la nascita di un’Italia libera e democratica, ma che non hanno potuto vedere il frutto del loro sacrificio”.

Nel libro, al quale Emma Bonino ha scritto la prefazione, si fa la conoscenza con personaggi come il comunista calabrese Rocco Pugliese, ucciso dai secondini dell’ergastolo di Santo Stefano o come il partigiano greco Giorgio Capuzzo che aveva combattuto contro gli italiani. Le loro storie sono precedute dal numero di matricola di ciascuno e da un distico che, come spiega Buffa “racchiude i possibili ultimi pensieri, quelli che nessuno sa se si riescono davvero a fare prima di morire”.

Gli anni del confino di Ventotene, quelli in cui presero forma l’idea di Europa e la futura Costituzione italiana, li raccontano, tra le altre, le storie di Mario Maovaz, il giellista triestino bibliotecario del confino. Dell’anarchico Gigino lo Stipettaio (si narra che nel sottofondo di un suo mobiletto sia uscita dall’isola una copia del Manifesto per l’Europa). Di un altro anarchico poi morto in un lager, Giovanni Domaschi. Uomini che, insieme ai futuri protagonisti dell’Italia democratica, hanno lottato, studiato, fatto politica.

“È per tutto questo”, conclude Buffa, “che a Santo Stefano e Ventotene si incrociano i destini dell’Italia, dell’Europa e delle migliaia di uomini costretti a viverci. Con loro rileggiamo i grandi fatti della storia come in una lente di ingrandimento per cogliere particolari sfuggiti o ignorati, rivedere giudizi stereotipati”.

La prefazione di Emma Bonino

Degli anni del confino di Ventotene e delle persone che li hanno vissuti una come me pensava di conoscere tutto: del Manifesto per l’Europa, di Altiero Spinelli, di Ada ed Ernesto Rossi… Pensava di avere letto così tanto da sapere bene come erano andate le cose.

E invece, proprio per una come me, la ricostruzione che di quegli anni viene fatta in Non volevo morire così è sorprendente ed emozionante.

Questo è un bel libro, scritto in modo gradevole, insieme drammatico e godibile. Due cose che sembrano in contraddizione ma che qui non lo sono.

Sono pagine che ricostruiscono la vita dei confinati, fotografano dettagli che gli anni rischiavano di cancellare per sempre. E diventano, quindi, un importante riconoscimento per tutti coloro che in nome dei propri ideali hanno perso la libertà e sono rimasti segregati nelle prigioni fasciste o nelle isole di confino. Non solo i personaggi più noti, quelli che hanno poi attraversato, con i loro nomi e le loro azioni, la storia della Repubblica. Oltre a Spinelli e agli altri federalisti penso a Pertini, Terracini, Scoccimarro… Uomini che della prigionia e del confino hanno scritto e raccontato nutrendo generazioni di libertari e di antifascisti. Ma questo libro è un riconoscimento soprattutto per coloro che non hanno potuto raccontare, che sono morti, come scrive Pier Vittorio Buffa nelle prime pagine, “prima di vedere il proprio sacrificio contribuire alla nascita di un’Italia democratica e repubblicana”. Incontriamo grandi eroi sconosciuti che senza questo lavoro avrebbero rischiato di uscire dalla nostra memoria, dalla storia di questo paese.

Incontriamo Giovanni Bidoli: una storia, la sua, che mi ha molto colpita. Una tenace lotta per difendere le proprie idee che finisce in un campo di concentramento e in una marcia estenuante in cui Bidoli scompare.
Incontriamo lo Stipettaio, l’anarchico che ha confezionato il mobiletto con il quale, si dice, vennero portati fuori dall’isola il Manifesto e altri importanti documenti clandestini. E che prepara un vassoio di legno sul quale Ernesto Rossi dipingerà bellissime scene di vita dei confinati di Ventotene.

E poi altri. L’uomo ammalato difeso da Pertini che impone al direttore del confino di farlo portare subito in ospedale. L’anarchico Domaschi che aveva diviso la cella con Ernesto Rossi…

Ecco, è proprio leggendo queste storie che ti rendi conto che ti sbagliavi quando ritenevi di sapere tutto e che nulla più potevi aggiungere alle tue conoscenze su quel pezzo di storia d’Italia. Persino di Altiero Spinelli ho scoperto un dettaglio della sua vita che ignoravo. A Ventotene aveva imparato ad allevare galline: dietro la sua piccola bottega da orologiaio aveva organizzato un efficiente pollaio. Attraverso particolari come questi si entra davvero nella vita del confino. Una vita difficile come tutte le vite segregate, una vita di stenti scandita dall’arrivo del piroscafo Santa Lucia che portava viveri, posta e, spesso, nuovi compagni.

L’isola di Ventotene la conosco bene. Anzi, pensavo di conoscerla bene. Ci sono andata molte volte, l’ho girata tutta, a terra e per mare. Ma non avevo mai sentito davvero l’odore del confino. I suoi silenzi, i suoi rumori attutiti, le sue urla, le sue disperazioni.

Le storie umane raccontate in queste pagine consentono di avere un quadro più preciso di quella comunità grande e variegata, attraversata da profondi dissidi e grandi amori, che è stata capace di mantenersi comunque vitale, sopravvivere alla dittatura, farsi trovare pronta quando c’è stato bisogno di prendere in mano le armi e costruire un’Italia libera. Una comunità della quale Bidoli, lo Stipettaio e gli altri hanno fatto parte a pieno titolo.
Non volevo morire così, come si capisce immediatamente dal titolo e dalla copertina, parla del confino di Ventotene e dell’ergastolo di Santo Stefano. Parla delle due isole insieme (“mondi lontani e opposti di due isole distanti solo un braccio di mare, ma legate da un comune passato di segregazione e sofferenze”) con l’intento dichiarato di spiegare le radicali differenze dei loro destini, fugare qualunque dubbio o confusione sul loro ruolo nella storia più recente, cogliere quello che le ha legate e le lega. Anche in questo caso attraverso gli strumenti che di questo lavoro sono i pilastri: una ricerca approfondita, risultato di passione e di sforzo intenso, le storie che emergono con la loro struggente quotidianità e le loro enormi sofferenze, il ruolo del cronista che racconta tutto questo con discrezione e pudore, senza mai mettersi in mezzo.

Attraverso la cronaca storica balzano fuori dalle pagine del libro due personaggi opposti dei quali è bene non perdere memoria.
Il primo è Marcello Guida, il commissario di polizia che fu l’ultimo direttore del confino, l’uomo che scriveva i ‘cenni’ (si scoprirà leggendo il libro di cosa si tratta) che segnavano il destino di centinaia di persone, l’uomo che all’indomani del 25 luglio fece sparire la foto di Mussolini dal muro dell’ufficio e il distintivo fascista dal bavero. Guida ha fatto carriera anche nella Repubblica: era il questore di Milano il giorno dell’attentato di piazza Fontana e, come è ricordato in queste pagine, disse subito che, sostanzialmente, l’anarchico Pinelli si era buttato dalla finestra perché i suoi alibi erano crollati. Pertini, quando era presidente della Camera dei deputati e si trovava a Milano, si rifiutò di riceverlo.

L’altro è, appunto, il suo opposto. È l’uomo al quale Buffa dedica un paragrafo intitolato “Il riformatore”: Eugenio Perucatti, direttore dell’ergastolo di Santo Stefano dal 1952 al 1960. Il suo approccio con l’ergastolo è diverso da tutti i suoi predecessori. Innovativo, moderno, rivoluzionario, di eccezionale attualità. Come prima cosa si fa portare i fascicoli dei detenuti e li studia per capire se dentro quelle mura siano rinchiusi degli innocenti. E nella sua prima riunione da direttore fa leggere l’articolo 27 della Costituzione, approvata da pochi anni, dove si stabilisce che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quello che Perucatti dice sull’ergastolo lo ripetiamo oggi, con le stesse parole, noi radicali. Lo ha sostenuto con tutto l’impegno di cui era capace Marco Pannella ed è quello che, né più né meno, Rita Bernardini dice ogni volta che visita un carcere. Parole e concetti quindi, quelli usati da Perucatti negli anni Cinquanta, di stringente attualità, dichiarazioni e modi di comportarsi che a un orecchio radicale risuonano molto contemporanei.

La ‘rivoluzione’ tentata da Perucatti e le storie dei detenuti morti sull’isola di Santo Stefano confermano, se mai ce ne fosse bisogno, come la battaglia contro l’ergastolo sia una battaglia che va combattuta fino all’ultimo, fino all’abolizione di una pena che è, di per sé, inumana e anticostituzionale. A questa battaglia Non volevo morire così, con le sue drammatiche storie di ‘sepolti vivi’, dà un importante contributo.

La storia di Rocco Pugliese

960. Ucciso
Sapevo che stavano per uccidermi, lo sapevo perché non avevo subito in silenzio la loro violenza. Io non volevo morire, perché avrei voluto combattere ancora contro i fascisti, aiutare il mio paese a diventare un paese libero. Per questo ho lottato fino alla fine. Poi mi hanno legato.
Rocco

Roma, Montecitorio, 19 novembre 1947, seduta dell’Assemblea costituente. Si parla di carceri, di pestaggi di detenuti. Il deputato socialista Sandro Pertini prende la parola per dichiararsi insoddisfatto della risposta del ministro di Grazia e Giustizia, e parla, tra le altre cose, del carcere di Santo Stefano, dove è stato rinchiuso durante il fascismo. È il giorno in cui Pertini mette la parola fine ai dubbi sulla morte di Gaetano Bresci, il regicida (vd. p. 33). Ed è il giorno in cui parla di un giovane comunista calabrese morto anche lui sull’isolotto ponziano, Rocco Pugliese. “Rocco Pugliese venne soppresso all’ergastolo di Santo Stefano, quando io ero lì, al letto di forza”. Soppresso, ucciso dalle guardie, mentre era legato al letto di contenzione.
Trent’anni dopo, nel 1977, Pertini, che è già stato presidente della Camera dei deputati e sta per diventare capo dello Stato, risponde a una lettera indirizzatagli da una nipote di Rocco Pugliese, Lina, e descrive minuziosamente quello che accadde nel carcere di Santo Stefano il 17 ottobre 1930.
“Una notte un grido straziante mi svegliò. Dalle celle di punizione giungevano rumori di guardie che correvano e poi l’urlo di Suo zio: ‘Mamma, mamma’ e quindi un silenzio di morte… Da informazioni assunte da detenuti comuni che facevano i lavori degli scopini e cioè pulivano i corridoi, le celle e portavano da mangiare ai detenuti, seppi che Suo zio era stato ucciso dalle guardie… Io quando parlo di lotta antifascista ricordo anche Suo zio perché pur non avendolo conosciuto personalmente è stato mio compagno all’ergastolo di Santo Stefano ed è morto tragicamente…la esorto a tenere viva la memoria di Rocco Pugliese, ucciso all’ergastolo di Santo Stefano”.
Rocco Pugliese, nato a Palmi nel 1903, viene rinchiuso a Santo Stefano il 19 gennaio 1929, condannato perché accusato di omicidio, di aver ucciso a colpi di rivoltella un fascista, Rocco Gerocarni. Ma Rocco non ha mai ucciso, la sua colpa è solo quella di essere un antifascista e un comunista. Una ‘colpa’ che lo ha portato prima in carcere, poi alla morte.
Palmi, quando il fascismo non è ancora diventato regime, è terra di socialisti e comunisti. C’è una sezione del Pci, di cui Rocco è uno dei fondatori, e i fascisti non riescono a imporsi. Il clima in città è teso, gli scontri frequenti, gli arresti dei ‘sovversivi’ anche. Il 30 agosto 1925 è l’ultima domenica d’agosto che, come ogni anno, è dedicata a Maria Santissima della Sacra Lettera, patrona della città, e alla festa chiamata della Varia. La Varia è un grande carro, alto più di quindici metri, trasportato in processione da almeno duecento uomini: una tradizione antica che affonda le sue radici nel diciottesimo secolo. Quell’anno i fascisti di Palmi decidono di ‘fascistizzare’ la festa e annunciano che una delle due bande musicali suonerà il loro inno, Giovinezza. In città scatta una decisa, ma pacifica rivolta. Gli antifascisti, e Rocco Pugliese è uno dei più attivi, chiedono la restituzione dei soldi versati per la festa e decidono di boicottare il trasporto della Varia. Aderisce la quasi totalità dei portatori e così sono i fascisti a doversi far carico del trasporto. Dopo momenti di tensione altissima la festa scorre secondo il programma stabilito anche se risuonano per le strade della città le note di Giovinezza. Alla fine la Varia viene deposta come sempre in piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza Primo Maggio) e la gente si gode la fine della festa passeggiando e sedendosi ai bar.
Al caffè De Rosa è seduto anche Rocco Pugliese insieme ad altri compagni. Un folto gruppo di fascisti entra nella piazza, con loro è la banda che ha suonato Giovinezza. Vanno verso la sede del Pci, poi verso il caffè De Rosa, dove sanno che siedono i loro nemici. Le note dell’inno fascista si diffondono nuovamente, “altri squadristi cominciano a straripare lungo il marciapiede agitando gagliardetti e bandiere ed intonando a squarciagola Giovinezza”. I fascisti insistono: cantano, si fanno sempre più sotto, cercano una reazione. Il ventiduenne Rocco grida: “Adesso basta, avanti popolo alla riscossa” e canta Bandiera rossa. Testimonierà Rocco il giorno dopo: “I fascisti mi vennero incontro ed il Gerocarni Rocco che mi stava di fronte quasi a contatto mi diede un colpo di bastone che riuscii a parare con la mano. I fascisti misero tutti mano alla tasca, mi stavano accoppando e io, presa una sedia, la lanciai contro i fascisti”. Contemporaneamente si sentono colpi di rivoltella. “Credetti avessero sparato contro di me”, testimonia ancora Rocco, “e dalla massa poi fui trascinato in casa Silvestri… Ero inerme e non è possibile che alcuno possa affermare di avermi visto sparare o di avermi visto con pistola o rivoltella in mano”. Le pallottole colpiscono Gerocarni e altre persone, ma solo lui morirà. Per gli antifascisti di Palmi quel che è successo è fin troppo chiaro: il parapiglia scatenato dagli squadristi serviva a creare il clima adatto per sparare su Rocco e sui suoi compagni. Un testimone dice con chiarezza che ha visto le fiammate dei colpi partire dalla tettoia di una casa su cui erano tre uomini. Nessun testimone ha mai detto di aver visto un’arma in mano a Rocco Pugliese o a qualcuno degli altri seduti al caffè De Rosa.
Per la polizia è invece chiaro l’esatto contrario: vengono arrestate decine di “sovversivi” e alla fine saranno trentuno i rinviati a giudizio per la sparatoria e l’omicidio. Le indagini “puntarono sul teorema falso della organizzazione premeditata dell’assassinio e di un fantomatico complotto sovversivo”. È l’inizio di uno dei processi emblematici all’antifascismo che si concluderà davanti al tribunale speciale il 5 dicembre 1928. Per Rocco Pugliese la condanna più pesante: ventiquattro anni e sette mesi di carcere per “correità in omicidio e quattro mancati omicidi”.
A Santo Stefano la cella di Rocco è marcata come quelle di tutti i politici: il dischetto rosso e la scritta: “Detenuto pericoloso da sorvegliare attentamente”.
Rocco non ha ancora trent’anni, la sua passione politica e il suo fervente antifascismo non lo hanno mai fatto arretrare di un passo. È un esempio di resistenza e di fierezza, dice di lui Pertini. Il suo fascicolo personale, che secondo altri documenti era il numero 960, non è però tra quelli catalogati dagli agenti di Cassino. O è mischiato ad altre carte e deve essere ancora catalogato. O è andato distrutto durante la rivolta del 1943 (vd. p. 144). Oppure non c’è perché qualcuno decise che non doveva essere trovato. La sua morte è registrata al Comune di Ventotene due giorni dopo, il 19 ottobre, con la spiegazione più ovvia e insignificante: morto per paralisi cardiaca, perché il suo cuore si è fermato.
Ma nel carcere si sa come sono andate le cose. Lo ha raccontato Pertini nell’aula di Montecitorio. Lo ha descritto ancora più dettagliatamente l’anarchico Giuseppe Mariani che fa anche i nomi dei responsabili dell’omicidio: “Un episodio banale, spingeva il capoguardia Porta a infierire sul condannato politico Pugliese fino a farne determinare la morte sul letto di forza; furono strumenti di quest’azione gli agenti Barbara capoposto e Giacobbo guardiano dell’infermeria, e, per inerzia, il dottore”. Il capoguardia Porta è un personaggio che si trova più d’una volta nelle memorie di chi è passato per Santo Stefano. Fu Porta ad accogliere, per esempio, il comunista Athos Lisa al suo arrivo all’ergastolo. Lisa lo descrive come un piemontese di costituzione robusta, “con uno sguardo che diceva da solo come l’ergastolo fosse affidato alla sorveglianza”. E racconta: “Che fosse così ce lo dimostrò immediatamente indirizzandosi in particolare a me: ‘Voi siete un uomo pericoloso’. Ed aggiunse: ‘Qui i pericolosi li trattiamo così’. Un pugno mi colpì in pieno viso. Barcollai e se non mi avesse sostenuto la catena che mi univa agli altri due ergastolani, sarei caduto per terra. I miei polsi, stretti ancora nelle manette, pareva sanguinassero, tanto divennero rossi”.
Anche da morto Rocco Pugliese fa paura e intorno alla sua salma si apre un macabro balletto burocratico. Dieci giorni dopo l’assassinio, alla prefettura di Reggio Calabria giunge notizia che “alcuni sovversivi” di Palmi hanno organizzato un “occulto lavorio” per raccogliere il denaro necessario per organizzare i funerali di Rocco, una volta che la salma fosse tornata a Palmi. Gli stessi “sovversivi” avrebbero fatto “private sollecitazioni” per far arrivare alla famiglia di Rocco “lettere di condoglianze e attestazioni di simpatia”. La cosa preoccupa così tanto che viene spedito sul posto un vicequestore per “eseguire diligentissime indagini”. Il funzionario interroga, indaga, perquisisce per poi arrivare alla conclusione che le notizie sono infondate, che “non è emerso alcun atto di solidarietà”. Comunque, per evitare guai, la questura dispone che i funerali di Rocco Pugliese “non abbiano luogo in forma pubblica e che la salma sia trasportata nottetempo dallo scalo ferroviario di Palmi al Cimitero”. E comunque, se ciò non bastasse, vengono date istruzioni “perché qualsiasi eventuale manifestazione sediziosa, comunque tentata o fatta, sia in tempo utile prevenuta e siano adottate severe misure di polizia a carico dei responsabili”.
Preoccupazioni inutili quelle della polizia calabrese. Perché il problema dei funerali di Rocco viene risolto a monte. In una nota di poche righe il prefetto di Reggio comunica a Roma che “dalle indagini eseguite è risultato che, almeno per ora, non avrà luogo il trasporto a Palmi della salma del detenuto in oggetto”. E dove sia finito il corpo di Rocco nessuno lo sa. A Palmi non è mai arrivato, nel cimitero di Santo Stefano non ce n’è traccia.
Ma della sua morte, nel carcere, si continua a parlare. Viene paragonata a quella di Gaetano Bresci (vd. p. 33). Anche lui chiuso a Santo Stefano, isolato, supersorvegliato, ucciso. Nessuno dubita che siano state le botte degli agenti a determinare l’“arresto cardiaco” di Rocco. E nessuno dubita che sia stato ucciso perché stava diventando un simbolo: giovane, comunista, condannato ingiustamente. Così la notizia della sua morte violenta esce dal carcere, gira nella rete clandestina comunista, arriva in Francia e il 21 dicembre diventa un articolo della Humanité, l’organo dei comunisti francesi: “Rocco Pugliese [il giornale, in realtà, lo chiama Pugliesi, ma è un evidente errore materiale] fu svegliato con un sussulto nel cuore della notte dal secondino in servizio. Le guardie di questa prigione sono reclutate tra la più vergognosa mafia di sfruttatori, alcolizzati, invertiti. Il secondino di Pugliese, ubriaco, fece al nostro compagno delle proposte abominevoli.

Fonte: L’Espresso

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Una risposta a “Non volevo morire così”: una Spoon River tra Santo Stefano e Ventotene

  1. FESTA scrive:

    In vista della Festa dell’Europa le piccole isole del Mediterraneo si incontrano a Ventotene

    Il 9 maggio, per la ricorrenza della “Festa dell’Europa”, i Sindaci delle piccole isole italiane ed una rappresentanza di quelle del Mediterraneo, si incontreranno a Ventotene per elaborare un contributo di idee e proposte da avanzare all’Unione perché, nel generale ripensamento della missione europea e dei fiondi comunitari, tenga conto delle problematiche insulari.

    L’iniziativa ha un particolare significato perché, da una piccola isola è nata l’idea di una Unità federale europea fondata su una forte solidarietà sociale, su una collaborazione fra tutti gli europei per superare le diseguaglianze ed in particolare per preparare nuovi cittadini con forte coscienza unitaria e buona preparazione scolastica per avviarsi ai diversi mestieri ed alle diverse attività liberali e scientifiche.

    Questo, in estrema sintesi, è il messaggio del famoso ed ancora attuale Manifesto che un piccolo gruppo di emarginati ha voluto lasciare in eredità alle generazioni future.

    I Sindaci delle piccole isole vogliono partire soprattutto dall’ultimo concetto sull’importanza della scuola e dell’istruzione.

    Già da qualche mese hanno distribuito, tra le scuole delle isole italiane, ma anche alcune del Mediterraneo, una bozza di documento su cui riflettere e sul quale avanzare le loro proposte che saranno rappresentate anche a Bruxelles come contributo di cittadini nativi europei.

    Una cittadinanza europea più consapevole e più partecipata è quella che si vuole costruire proprio per fare progredire quell’Unione di popoli che forse l’attenzione alle tematiche più finanziarie hanno un po’ tralasciato ed affievolito.

    Saranno individuati alcuni studenti, per realtà insulare, che diventeranno gli ambasciatori delle peculiari problematiche e soprattutto coloro che possono contribuire ad individuare le soluzioni più adeguate e mirate alle peculiarità che rappresentano.

    Questi sono gli obiettivi che i Sindaci delle isole del Mediterraneo intendono raggiungere e nell’incontro del 9 maggio, a Ventotene saranno meglio definiti.

    L’altro obiettivo fondamentale è quello di rafforzare l’unione delle isole del Mediterraneo che cooperano non in modo settoriale ed episodico, ma in modo coordinato e continuato perché sono una realtà omogenea e va considerata tale anche dalla Unione Europea.

    Questo è stato affermato in un recente documento approvato nell’Assemblea del GECT ArchiMed.

    All’iniziativa sono stati invitati il Ministro della Pubblica Istruzione, perché il focus è sulla scuola ed è in linea con uno degli obiettivi della legge 107/2015 sulla “buona scuola”, il Ministro Franceschini, con il quale i Sindaci delle piccole isole e le Regioni coinvolte hanno sottoscritto un “Contratto di sviluppo” fondato sulla cultura e sui valori identitari per favorire nuovo sviluppo ed occupazione duratura perché non legata ai soli fattori “sole e mare”, alcuni parlamentari europei ed italiani, segnatamente l’On. Silvia Costa, che sta portando avanti -a livello comunitario- i valori della cultura e l’importanza delle isole con la proposta di istituire il riconoscimento dell’”Isola dell’anno”.

    Il Senatore Vannino Chiti, che da sempre è stato un sostenitore dell’Europa con contributi incisivi su molti temi ed ancora oggi è un convinto contributore di idee innovative e di proposte.

    L’Ambasciatrice maltese perché si faccia portavoce, nel semestre di loro presidenza, della proposta di documento che sarà elaborata dai Sindaci delle piccole isole da adottare tra le proposte finali di Malta.

    In particolare, il Sindaco di Cefalonia, parteciperà alla riflessione del 9 maggio con un contributo di idee sulla cultura come collante dei popoli, deporrà dei fiori sulla tomba di Spinelli come ringraziamento per avere ingenerato questa nuova coscienza di Unità federale di pari diritti.

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