Il degrado dei beni artistici e architettonici, dal carcere di Ventotene alla Domus romana di Pesaro. Dopo il crollo di Pompei, sono centinaia le immagini inviate dai lettori al nostro sito per segnalare monumenti da salvare. Una galleria degli orrori per denunciare l’incuria, l’inefficienza e l’incompetenza delle istituzioni. In un’Italia che spesso spera solo nel miracolo.
C’è lo storico e scenografico carcere di Ventotene, costruito dai Borboni alla fine del Settecento, dove il fascismo rinchiuse il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, insieme a Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso e dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero nel 1941 quel “Manifesto” che avrebbe dato vita all’Unione europea : rimasto in uso fino al 1965, il penitenziario è stato evacuato e mai ristrutturato (segnalazione di Arturo Bandini da Roma).
C’è il primo castello del Mediterraneo, a Casaluce (Caserta), edificato nel 1024 da Rainulfo Drengot e diventato poi convento dei frati Celestini, “abbandonato all´incuria del tempo” (segnalazione di Michele Fedele). In Molise, provincia di Campobasso, c’è l’antica città romana di Saepinum che risale al II-III secolo a.C. e versa “in stato di disinteresse e di abbandono”, minacciata per di più dall´installazione di un imponente parco eolico nelle vicinanze (segnalazione di Francesco Palladino: “Stanno per distruggere uno dei siti archeologici più suggestivi della regione”).
C’è anche l’edificio razionalista della Manifattura Tessile di Moncalieri, a Torino, costruito nel 1951 dagli architetti Mario Passanti e Paolo Perona, “in totale abbandono da anni” (segnalazione di Andrea Mariotti). E ci sono, insieme a questi, altre centinaia di monumenti, palazzi, castelli, chiese, piazze, fontane in rovina o in pericolo che, da un giorno all’altro, possono fare la stessa fine ingloriosa della Domus dei Gladiatori di Pompei: come le mura rinascimentali di Padova, lunghe 11 chilometri, ricoperte di erbacce e di costruzioni (Fabio Bordignon); il castello di Cusago, alle porte di Milano, fatto costruire da Bernabò Visconti tra il 1360 e il 1369 per sfuggire alle epidemie, assediato dall’incuria (Gianni Politi); l’Acquedotto alessandrino di Roma, trasformato in parcheggio per auto (Ivan) o l’antico porto di Traiano, a Fiumicino, già crollato più volte e ora aperto al pubblico soltanto due giorni al mese (Gaetano Palumbo); la Cittadella di Ancona, uno degli esempi di fortezza bastionata più pregevoli dell’Italia centro-meridionale, “destinata al completo degrado” (Fabio Barigelletti); la Domus romana di piazza Matteotti a Pesaro, “condannata alla sepoltura” (Roberto Malini) .
È un Atlante del Malpaese, per molti aspetti inedito e inquietante, quello che centinaia di lettori di Repubblica e cittadini della Repubblica – armati semplicemente di macchina fotografica o anche solo di telefonino – hanno compilato in questi giorni, rispondendo all’appello del giornale per cercare di salvare i monumenti a rischio. Il nostro sito è stato bombardato di foto e segnalazioni da tutt’Italia, per effetto di una mobilitazione popolare che supera le aspettative e dimostra una sensibilità assai diffusa per la tutela del nostro patrimonio storico, artistico e culturale.
Da un capo all’altro della Penisola, se ne ricava un impressionante inventario di opere preziose costruite dall’uomo nel corso dei secoli e poi dimenticate, dismesse, vilipese. Un catasto del degrado monumentale, da Nord a Sud, regione per regione. Una sorta di grande “Museo degli orrori” che fa rabbia e vergogna a tutti noi: tanto più che il turismo è tuttora la nostra principale industria nazionale e questo si fonda, oltre che sulle bellezze naturali, sull’attrattiva di un “giacimento” unico al mondo.
Sono immagini sconcertanti e avvilenti. Un insulto alla storia, all’arte e alla cultura. E quindi, anche all’identità nazionale, al nostro codice genetico, all’anima stessa dell’Italia.
E sono proprio queste, insieme e oltre la Domus dei Gladiatori, le vere colpe del ministro Biondi e di tutti coloro che l’hanno preceduto. Lo stato generale di abbandono e di degrado in cui versa gran parte del nostro patrimonio storico e artistico è di per sé un atto d’accusa contro i responsabili politici e amministrativi che avrebbero dovuto provvedere alla sua conservazione, alla sua tutela e magari alla sua valorizzazione. Siamo di fronte, invece, a una dissipazione di beni e risorse che abbiamo ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti e che, di questo passo, non riusciremo a riconsegnare intatti a quelle future.
Eppure, questo è il nostro “oro nero”. Queste sono le “materie prime” di cui lamentiamo a piè sospinto la mancanza. In un Paese dove bisogna arrivare al limite dell’insurrezione popolare per impedire le trivellazioni petrolifere in Val di Noto, scrigno inestimabile del barocco siciliano, lasciamo andare in rovina monumenti e opere d’arte che potrebbero essere fonte di lavoro e di ricchezza.
Spesso, come ha ammesso lo stesso Bondi nel caso della Domus, non è neppure questione di fondi: Pompei è la prima méta turistica italiana e in pratica si autofinanzia con il ricavato dei biglietti. Si tratta piuttosto di incuria, di inefficienza, di incompetenza. Nel cortocircuito burocratico tra ministero, Regioni, Province, Comuni e Sovrintendenze, il potere si esercita più che altro attraverso il veto e così si disperdono anche le responsabilità. Alla fine, non si capisce neppure più di chi sia la colpa.
Nonostante l’impegno e la militanza delle associazioni ambientaliste, tra cui in prima linea il Fondo per l’ambiente italiano, Legambiente e Italia Nostra, a volte tende a prevalere un atteggiamento d’impotenza o di rassegnazione. Ma i soldi non sono tutto. E lo dimostrano i miracolosi salvataggi di tanti beni artistici a opera del Fai che dal 2003 promuove in collaborazione con Banca Intesa San Paolo un censimento nazionale intitolato “I luoghi del cuore” o la campagna “Salvalarte” che Legambiente porta avanti con encomiabile costanza da oltre dieci anni a questa parte: dal 1996 l’associazione presieduta da Vittorio Cogliati Dezza ha segnalato al Ministero dei beni culturali 980 opere da salvare tra monumenti, chiese, siti archeologici, ma anche sculture e affreschi. E sono più di una ventina quelle che, su intervento di Legambiente, sono state già recuperate e restaurate per essere restituite alla collettività.
Anche in questo campo, evidentemente, è necessario coniugare i nobili ideali con il pragmatismo. E dove lo Stato o gli enti pubblici non sono in grado di intervenire, per mancanza di fondi o per esigenze di tagli, si deve ricorrere al volontariato, all’iniziativa privata, a forme di partnership o di sponsorizzazione con imprese italiane e straniere che magari possano anche “adottare” un monumento o un palazzo. Meglio affiggere una targa con il marchio o il logo di un’impresa piuttosto che un cartello con la scritta “chiuso a tempo indeterminato”.
Fonte: La Repubblica