Periodicamente in Italia si parla di dissesto idro-geologico, di paesaggio compromesso dalle speculazioni edilizie e dall’incuria. Naturalmente – come sempre accade in questo strano paese – se ne parla per qualche giorno, a ridosso delle varie calamità e poi torna a calare il silenzio sul paesaggio e sui beni archeologici e culturali, tutto fino al prossimo disastro annunciato, fino alle macerie che faranno il giro del mondo esponendoci ver-gogna internazionale.
La storia del paesaggio italico è storia antica e affonda le sue radici nell’uso del territorio che gli uomini ne hanno fatto da almeno un paio di millenni, con un’accelerazione impressionante nell’ultimo mezzo secolo.
Il paesaggio italiano è stato in grandissima parte modificato nel corso degli anni dall’essere umano e questo gli ha dato da un lato uno straordinario fascino ma dall’altro ne ha precarizzato la stabilità.
Quello che è avvenuto nel secondo dopoguerra merita una seria riflessione. Abbiamo assistito – dopo un periodo come quello fascista in cui si è favorito il disboscamento per sfruttare anche le terre di alta collina in nome di un’autosufficienza cerealicola – a due fenomeni decisamente notevoli. Il primo: l’esodo della popolazione, negli Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, dalle cosiddette terre marginali, quelle che non garantivano un reddito in grado di permettere una vita dignitosa, terre di media montagna, di alta collina, terre fortemente scoscese e bassamente produttive.
Il secondo: la meccanizzazione dell’agricoltura negli anni Settanta.
Il primo fenomeno comportato non solo l’abbandono di terre ma anche la fine della manutenzione ordinaria delle acque e delle terre. Questo abbandono ha permesso alle acque di tornare a seguire le linee naturali di pendenza ed ha provocato la perdita di stabilità dei terreni e numerosissimi fenomeni franosi che hanno avuto conseguenze devastanti sui corsi dei fiumi maggiori che si sono trovati a dover trasportare, insieme alle acque, ingenti quantitativi di terra confluenti dall’intero bacino imbrifero destinati a depositarsi sui letti fluviali innalzandoli e rendendo molto più frequenti le esondazioni, anche in zone lontanissime da dove è il problema si è originato.
Il secondo fenomeno, la meccanizzazione delle campagne, specialmente nelle zone collinari, ha richiesto uno sforzo notevolissimo di uomini e mezzi per adattare terreni scoscesi ai mezzi agricoli provocando la scomparsa di avvallamenti collinari secolari, colmati con terra di riporto. Tutto questo è avvenuto senza regolamentazione di sorta ed ha comportato anche l’abbattimento di migliaia di alberi che garantivano da tempi immemorabili la tenuta di molti terreni. Questo equilibrio artatamente creato per mantenersi ha bisogno di convogliare le acque in modo armonico con le pendenze per evitare i catastrofici ruscellamenti verticali, capaci di trascinare a valle quantità indescrivibili di terra. Ma in questi ultimi anni si sta verificando un ennesimo esodo dall’agricoltura. Per motivi legati spesso ad una politica agraria italiana raccapricciante e all’apertura del mercato globale migliaia di agricoltori sono costretti a dismettere le loro attività in quanto non più in grado di garantire la sopravvivenza. Questo ulteriore abbandono delle terre – spesso sono le stesse che sono state livellate negli anni Settanta del Novecento – è causa di un’ulteriore incuria del territorio. Lavori per guidare le acque, mantenere i torrenti puliti, evitare l’impaludamento di aree, rendere innocui i piccoli movimenti franosi hanno dei costi decisamente alti che, quando si coltivava la terra ricavandone un reddito, venivano svolti dagli agricoltori, ora che non è più possibile ricavare alcun reddito non vengono più effettuati, nemmeno saltuariamente.
Diceva un proverbio – che poi è anche il titolo di uno straordinario saggio di Carlo Poni (Il Mulino, 1982, rieditato nel 2004 dalla stessa casa editrice) – che Fossi e cavedagne benedicon le campagne. Nel mondo mezzadrile l’incuria dei fossi poteva essere motivo di disdetta, equivaleva cioè ad essere cacciati dal podere e ritrovarsi con la famiglia nella più assoluta miseria.
In questi anni, anche dopo la legge Galasso (legge 431/85) – la prima che dal 1939 ha cercato di mettere ordine al caos edilizio italiano e porre dei limiti alla distruzione del patrimonio paesaggistico – si è continuato a costruire in barba alla legge a ridosso di fiumi, mari, laghi e sulle pendici dei vulcani. Quanto di questi abusi sono stati puniti? Quanti edifici sono stati condonati? Quanti autorizzati in deroga alla legge 431/85?
Contestualmente si sta cercando di razionalizzare al massimo i lavori agricoli tralasciando tutto ciò che non garantisce un riscontro economico immediato. Quindi, accanto ad un’attività agricola intensiva ed estensiva e una speculazione edilizia scandalosa e dissennata, assistiamo ad una scarsissima cura dei fossi di scolo, degli argini, dei torrenti, dei fiumi e dei laghi confidando nella buona stella e nel tempo clemente. Quando poi il tempo non è clemente bastano poche ore di pioggia per creare disastri che finiscono per colpire migliaia di persone e di attività, mettendo letteralmente in ginocchio intere regioni. Il caso del Veneto è solo l’ultimo in ordine di tempo.
Quello che è inqualificabile è che politici locali e nazionali, che ormai governano da decenni, giochino a scaricare le colpe su altri. Governare un territorio vuol dire soprattutto metterlo in sicurezza, intervenire sui problemi prima che questi diventino piaghe sociali ed economiche. Vanno aiutate le popolazioni del Veneto con tutti i mezzi a disposizione del paese ma nello stesso tempo vanno cercati in loco gli eventuali responsabili di quanto avvenuto, negli amministratori e nei politici che reggono i comuni, le province e la regione.
Non possiamo continuare a scaricare le colpe su altri, servono assunzioni di responsabilità, serve un impegno concreto per mettere in sicurezza il territorio e serve individuare ruoli e competenze.
Bisogna uscire da questa schizofrenia, le emergenze del paese, lo sanno bene in Veneto, in Abruzzo, a Pompei, a Ventotene e in ogni luogo del paese in cui si manifesta nella sua drammaticità il dissesto del territorio, non sono i ponti futuristici, né il ritorno al nucleare, né tantomeno una sterile contrapposizione tra nord e sud, ma la salvaguardia del patrimonio paesaggistico, territoriale e abitativo del paese.
È inaccettabile che anche in condizioni di emergenza si prometta l’aiuto ad una regione anteponendola ad un’altra. La logica della sofferenza dovrebbe travalicare i biechi interessi di bottega e uscite come quelle del governatore Zaia sui rovinassi di Pompei dimostrano quanto la polemica politica sia deleteria in un paese in stato di abbandono.
Fonte: L’Umana Compagnia