A Santo Stefano non serve l’lSIS, basta lo Stato

Il penitenziario di S. Stefano

Il penitenziario di S. Stefano

Fra queste mura, dove nell’Ottocento avevano sofferto i padri del Risorgimento, il regime fascista incarcerò Sandro Pertini, presidente della Repubblica». La lapide all’ingresso del carcere di Santo Stefano – l’isola deserta davanti a Ventotene dove furono prigionieri anche Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro (Altiero Spinelli e Ernesto Rossi furono al confino nella vicinissima Ventotene) – ha i bordi in disfacimento, tra rovi, sterpaglie e mura pericolanti: ma non è ancora nulla.Il carcere-Panopticon, costruito nel 1795 da Ferdinando IV di Borbone come esperimento per la detenzione perfetta (forma a ferro di cavallo ispirata alle teorie di Bentham, controllo totale dei detenuti da una sola torretta centrale), un monumento inestimabile per la coscienza storica dell’Italia, vive ormai in uno stato di degrado irreversibile. Altro che Pompei: qui rischia di cadere tutto da un momento all’altro e fioccheranno i titoloni del giorno dopo.

Lo scandalo

Se questo non è uno scandalo, di cui interessare tutti, dal governo Renzi alla presidenza della Repubblica, nulla lo è. Nel penitenziario di Santo Stefano è passata la nostra storia risorgimentale, liberale, anarchica, e infine antifascista (tra cui buona parte della Costituente). Dopo il 1848 ci vengono internati Silvio Spaventa e Luigi Settembrini. Nel 1900 viene spedito qui Gaetano Bresci, l’anarchico che uccide Umberto I, «il re mitraglia»: Bresci «viene suicidato» dai secondini nell’infermeria del carcere. «È sepolto qui», racconta Salvatore Schiano di Colella, studioso e guida turistica. Ha l’incarico, per conto di un’associazione di Ventotene che ha ricevuto l’affidamento dal Comune, di provvedere ai lavori di manutenzione minima, tenere sostanzialmente aperto il sito. Ma Santo Stefano tutta è ormai quasi perduta. L’isola ha quattro perigliosissimi approdi, dunque è inutilizzabile turisticamente. L’area è di proprietà per tre quarti di un notaio napoletano-vicentino (che prova a venderla da anni senza risultato) e per un quarto del demanio pubblico: proprio nella zona di pertinenza del carcere. E qui comincia il vero scandalo.

La politica? Assente

Questo che Giorgio Napolitano nel 2008 ha dichiarato patrimonio nazionale, e l’Unione europea dal 2013 decreta «patrimonio storico-artistico» da salvaguardare, presto sarà crollato. È questione di tempo. Nei tre piani del Panopticon, 33 celle ciascuno, 4 metri per 4, i pilastri di molte arcate non esistono più. Le porte delle celle sono divelte. I muri cadenti. Ruggine e ferraglie ovunque. Non c’è il minimo interessamento pubblico – Tesoro, Beni Culturali, Palazzo Chigi – ma non è una novità. «Negli anni – racconta Schiano di Colella – ci sono stati studi di fattibilità, sempre abortiti; un’azienda, la Promoter di Perugia, fece anche un piano, presto abbandonato. La politica? «Mai vista». Nel 2006 il governo promise qualcosa. Non realizzò nulla. «A parte la cappella centrale del carcere, ristrutturata orribilmente e con spesa folle, 397mila euro, dalla Regione Lazio nel 2010, gestione Polverini» Politici in visita? «Ai tempi del G8 a l’Aquila venne l’europarlamentare Tajani, disse che era da abbattere tutto e costruire ex novo». La nota sensibilità storico-cultuale del centrodestra berlusconiano.

La battuta di Silvio

Del resto da queste parti ancora citano la battutona di Silvio Berlusconi («Mussolini in fondo mandava gli oppositori a fare le vacanze a Ventotene»). Peccato che a Santo Stefano i detenuti vivessero in sette-otto in celle di 4 metri, ceppi ai piedi, e non vedessero il mare. Isolamento totale. Tassi di morte altissimi. Depressione. Follia. «Fine pena mai». Sandro Pertini ci stette quattordici mesi, nel 1929. Di qui passò nelle strutture di massima sicurezza del regime, a Turi, dove conobbe Gramsci, Pianosa, Ponza, le Tremiti, Ventotene (dove stette dal 39 al 43).

Nel 1965 il carcere chiude. Nel 1992 il Tesoro lo dà in affidamento al Comune: pilatescamente, se ne lava le mani. Anche la parte privata dell’isola, se venduta, è totalmente antieconomica: l’intera area è sottoposta a vincoli di fascia A, non ci si può neanche fare il bagno. Quando si dice: ecco a cosa servirebbe un investimento pubblico; magari una fondazione mista totalmente a fondo perduto. Se esistesse in Italia uno Stato, o una cultura d’impresa. O forse anche la condanna italiana è un «fine pena mai».

Fonte: La Stampa

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Una risposta a A Santo Stefano non serve l’lSIS, basta lo Stato

  1. Marco Dall'Asta scrive:

    Ciao, vi segnalo un articolo di Newsweek appena uscito che parla del “recupero” privato dell’isola di Santo Stefano

    http://www.newsweek.com/2015/09/18/coming-rescue-italys-ghost-towns-369205.html

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